Questo post è per la raccolta “Afrodida”, lanciata nel blog di Dida, che ci propone di mettere insieme una serie di ricette afrodisiache, partendo proprio dalle parole di Isabel Allende nel libro “Afrodita”.
Ho fatto una ricerca nella storia della cucina e anche della letteratura siciliana dove spesso la gastronomia ha un ruolo significativo, con l’intento di trovare una ricetta “afrodisiaca” che potesse mettere in risalto quanto in Sicilia, soprattutto nel passato, i piaceri dei sensi fossero legati ai piaceri della tavola, e come i divieti imposti dalla Chiesa, la mentalità moralista e tradizionalista, fosse spesso in contraddizione con una sorta di edonismo primordiale, appartenente sia alle fasce popolari (che spesso la sfogavano in periodi circoscritti, per esempio il carnevale), ma anche alla realtà nobiliare, dove l’apparente morigeratezza e religiosità, nascondeva lussi e sfrenatezze.
Al centro di Palermo, vicino Piazza Marina, erano noti i luoghi in cui, nelle tenebre della notte, tantissime carrozze eleganti, venivano parcheggiate per permettere ai potenti dell’epoca scambi di coppie e incontri con le “escort” di allora.
Anche in tavola veniva espressa una certa “malizia” e “il doppio senso”, stimolatori di passioni e fantasie, e la ricetta che più secondo me rappresenta tutto ciò, è quella di un dolce che poteva essere considerato afrodisiaco, non tanto per l’uso di ingredienti che stimolassero i sensi del piacere, ma per la sua forma e il suo significato, che nel passato, in cui si lasciava maggior spazio all’immaginazione, ancora di più suscitava sensuali turbamenti.
Dicevo della letteratura siciliana, perchè questo dolce è stato “nobilitato” da Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo, che con le sue parole ne esprime perfettamente il senso.
Don Fabrizio proprio durante il famoso ballo, vedendo di fronte a sè un vassoio di dolci scelse quelli che: “…si sfaldavano scricchiolando quando la spatola li divideva, sviolinature in maggiore delle amarene candite, timbri aciduli degli ananas gialli, e ‘trionfi della gola’ col verde opaco dei loro pistacchi macinati, impudiche ‘paste delle vergini’ ” e si domandava: “ Come mai il Santo Ufizio, quando lo poteva, non pensò a proibire questi dolci? I trionfi della gola (la gola, peccato mortale!), le mammelle di S. Agata vendute dai monasteri, divorate dai festaioli! Mah”.
Ne parla anche il Pitrè raccontando le tradizioni palermitane “In tutto l’anno tenevansi in alta fama le suore del monastero delle Vergini con le impareggiabili loro “sussameli” e, meglio, con certi loro pasticci, il nome de’ quali, “minni d’i Virgini” (mammelle di vergine) si presta ancora oggi ad un bizzarro, e un po’ salace bisticcio”.
Nella letteratura più recente, una scrittrice siciliana, Giuseppina Torregrossa, ha scritto un libro che non ho ancora letto, che parte proprio dal racconto della fattura di questi dolci (nella versione catanese), per parlare di donne siciliane, il libro si intitola “Il conto delle minne” (il racconto dei seni).
A Catania “le minne di Sant’Agata” raccontano di una storia cruenta di sesso, omicidio e santità. Un dolce che ricorda il martirio della giovane cristiana Agata, perpetuato da parte del pagano proconsole Quinsiano, il quale dopo aver visto rifiutate le sue avances nel nome della religione cristiana, tentò di corrompere la moralità della fanciulla, affidandola “alle cure” di una prostituta sacra di un tempio pagano, e non potendovi riuscire, la torturò recidendole i seni.
I dolci catanesi hanno quindi la forma di due cupolette di pasta frolla, ricoperte di glassa bianca, ripiene di crema di latte e canditi e sormontate da due ciliegie rosse. Devo dire che conoscerne la storia, smorza un po’ il potere erotico di questo dolce delizioso.
Nella tradizione di Sambuca invece il dolce fu inventato da Suor Virginia Casale di Rocca Menna del collegio di Maria, sotto richiesta della Marchesa di Sambuca, che per l’occasione del matrimonio del figlio, desiderava trovare in tavola una novità in campo di dolci. Nel 1725 la suora, probabilmente stupendo tutti per la sua sfacciataggine, creò, ispirata dalle dolci sinuosità delle colline della sua terra, un dolce morbido di pasta frolla, ripieno di crema, zuccata, cioccolata e spezie che risvegliassero i sensi, come pure la forma maliziosa di seno.
Devo dire che a parte le tradizioni fin qui raccontate, che si chiamino cassatine o “ minni dilli virgini”, si tratta di veri bocconcini goduriosi, dolcissimi e delicati, morbidi e profumati, nessuno potrebbe resistere a questi attimi di puro piacere.
Ovviamente se si volesse offrire questo dolce con un “intento” afrodisiaco, sarebbe necessario porne due su di un piatto.
Offrendo una sola “minna” o una intera “guantiera” (vassoio), il senso della cosa potrebbe infatti non essere compreso da un “commensale” poco perspicace e più vorace, che si avventerebbe rapidamente su tutti i prelibati pasticcini, riempiendosi lo stomaco e annullando rapidamente il ludico obiettivo che ci si era proposti.
Spezzettare il pan di spagna e spargerlo sulla crema fino a ricoprirla.Capovolgere le cassatine su dischetti di carta per dolci e spennellare la parte superiore con la glassa. Far asciugare e applicare al centro di ogni cassatina una ciliegia candita.
Ciao Dida, spero ti sia piaciuta.